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● – IL TERREMOTO DEL 6 FEBBRAIO 1971 RACCONTATO DA UNA (ALLORA) BAMBINA.

Pubblicato da in Blog Toscanella ·
 
Premetto che spesso Marina Marini racconta degli spaccati di vita della sua infanzia con una lucidità e una ricchezza di particolari che riescono a catturare l’attenzione e a far sì che il suo racconto si possa leggere tutto d’un fiato anche quando si tratta di brani di una certa lunghezza. Secondo il mio modesto parere Marina ha la stoffa della scrittrice e forse sarebbe ora che iniziasse a “buttare giù” qualcosa. Ringrazio Marina per avermi concesso di pubblicare il suo racconto, un racconto che dedica a suo padre Gabriele scomparso recentemente. luigi pica
 
Ecco il suo racconto:

 
Voglio raccontare la mia notte del terremoto...
 
La sera del 6 febbraio 1971, dopo che mio padre ci ebbe messo in salvo nell'orto delle Casacce (oggi parco Umberto II), insieme a tante altre persone scampate miracolosamente al crollo della propria casa, lui cominciò la conta di parenti ed amici.
 
Coraggiosamente, raggiunse e portò soccorso a sua cognata (rimasta sola in casa con le figlie piccole) e ai vicini.
 
Ancora confusi e sgomenti, dal fondo della strada, tra le macerie e le rovine di quelle che, fino a pochi minuti prima erano state le nostre case, vedemmo avanzare verso di noi una specie di fantasma, bianco di calcinacci fin sui capelli: mio zio Vittorio, il fratello più piccolo di mio padre, arrivato dalla casa dei cugini di Via Consalvi e sorpreso dal terremoto mentre scendeva le scale del palazzo.
 
Mio zio Vittorio ci toccava per assicurarsi che fossimo davvero ancora vivi e in salute, ma raccontava di aver visto un paese distrutto e di aver incontrato persone che parlavano di morti, giù in Piazza...
 
Allora, senza ascoltare le proteste di mia madre, il babbo partì alla ricerca di sua nonna Assunta, che abitava una vecchia casa di Via Valle dell'Oro.
 
Facendosi largo tra la gente che scappava o che cercava parenti, riuscì ad arrivare fino a Strada Maestra per vedere una specie di fagotto lacero e imbiancato che arrancava, faticosamente, su per la salita. Le persone in fuga lo urtavano e lo facevano ricadere a terra ma nessuno badava a lui.
 
Mio padre corse verso di lui, lo rialzò e lo riconobbe: con la testa rotta e sanguinante, pieno di polvere e contuso, gli occhiali impastati di calcinacci e sangue don Lidano, il nostro parroco, tentava di raggiungere S. Marco per munirsi dei paramenti sacri e impartire l'estrema unzione ai morti.
 
Don Lidano Pasquali era uscito vivo dal vecchio Ospedale ma aveva visto i morti che c'erano e, come suo dovere, voleva somministrare i sacramenti. Non senza sforzo il babbo era riuscito a portarlo all'orto per medicarlo; con lo zio erano risaliti in casa per arraffare qualcosa di utile: asciugamani, una torcia, alcool e la copertina del letto di mia sorella. Constatata la gravità della ferita e l'impossibilità di rimuovere i sassi nella testa senza causare danni, saputo dell'arrivo delle ambulanze per i feriti, ci si sposta alle Cerquette. Nella foto che gli faranno, poco prima di salire in ambulanza, mentre parla con il dr. Mezzera, don Lidano ha ancora al collo l'asciugamano di mia madre.
 
Al sicuro nello spiazzo del vecchio deposito di materiale edile di Via Nazario Sauro del babbo, lo vedemmo ripartire per andare a cercare la nonna, della quale non si avevano notizie.
 
Arrivato in Piazza, si imbatte in un suo caro amico armato di piccone: "Che ci fai con quello?" gli chiede "Non lo sai? - risponde l'altro- c'è da scavare! Ci sono i morti..." e non finiscono il discorso che vengono chiamati a prestare soccorso da un altro amico, 'Ntogno.
 
Salgono le scalette, tutti e tre, e arrivano dove c'è bisogno di loro: davanti ad un portone chiuso, nel bel mezzo del via vai di gente, una coppia, marito e moglie, stanno abbracciati e piangono.
 
Dietro la porta, il figlio adolescente e l'anziana madre non danno segni di vita.
 
La casa è semi diroccata ma la parete dove c'è la finestra sembra ancora buona. Qualcuno trova una scala lunga, una di quelle che servono per cogliere le olive e mio padre, che è il più giovane, si arrampica seguito dall'amico.
 
In qualche modo riesce ad aprirsi un varco per entrare e lo vede, il ragazzo e più in là sua nonna e sente l'odore della morte ancora prima di capire che non c'è più niente da fare.
 
Da sotto, la madre chiede notizie, vuole sapere come sta, se è lì, suo figlio.
 
Il ragazzo è leggero, mio padre capisce di poterlo trasportare; l'amico, alle sue spalle impreca sottovoce e dice: "Fai presto, c....o!"
 
Il babbo si avvicina alla nonna e vede le sue mani intrecciate nella corona del rosario; lei è pesante, prova a smuoverla e viene giù una parte del tetto. Le bestemmie di 'Ntogno raddoppiano e lui torna dal ragazzino: si guardano, con l'amico e si capiscono.
 
Adesso ci sono un po' di persone intorno ai due genitori e 'Ntogno si intende, dall'alto della scala, con qualcuno di loro: "Adesso scendiamo con il ragazzo, che è svenuto ma è vivo e lo portiamo di corsa all'ambulanza. Voi levatevi da lì e fateci passare."
 
Con il morticino in spalla il babbo comincia la discesa della scala guidato dall'amico. La madre viene circondata e qualcuno l'abbraccia ma, come potrebbe essere altrimenti? Lei riesce a divincolarsi e ad afferrare una delle mani di suo figlio prima ancora che mio padre abbia potuto posare entrambi i piedi a terra...
 
Ho visto tante cose quella notte del 6 febbraio 1971, ma quello che non dimenticherò più, credo, saranno le lacrime degli adulti.
 
Avevo 10 anni e credevo che le lacrime appartenessero al mondo dei bambini: non sapevo quanto amare e disperate potessero essere quando vengono versate da un adulto. Non l'ho mai più dimenticato ma ho appreso, sempre quella notte, attraverso l'esempio dei miei cari, che ci è stata data in dono la facoltà di poterle asciugare, quelle lacrime o di farle essere meno amare e questo, davvero, ci rende degni di appartenere al genere umano.
 
Marina Marini



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