Di tanto in tanto il mio amico Luciano Laici, poeta dialettale tuscanese, mi delizia, inviandomi uno dei suoi componimenti in sestine. Io più che leggerlo, son solito esaminarlo con attenzione: ad attirarmi sono soprattutto i contenuti, perché una delle caratteristiche principali di essi è l'intento didascalico. I suoi versi, per intenderci, non sono effusioni liriche, pure contemplazioni, pregnanze espressive, impasti magmatici di sentimenti ed affetti, sovrapposizioni allusive. La sua poetica si fonda sul realismo, in cui le parole hanno valore oggettivo e oggettivante, in ogni caso denotativo. Laici è un vero poeta contadino, la sua produzione in versi, destituita in genere di velleità letterarie, tende a cogliere la sostanza della vita, le sintonie concrete con la sua terra, la Maremma.
I suoi versi, intrisi di materialità, rievocano e tramandano la memoria di un'esistenza che in passato è stata grama e dura, la quotidianità del lavoro, lontana da una nostalgia arcadica o bucolica: egli della Maremma di un tempo ci restituisce ogni angolo, ogni aspetto anche minuto, che descrive senza tratti oleografici.
Per questo motivo dai suoi testi si possono ricavare informazioni e testimonianze utili per svolgere un esame etnoantropologico e linguistico. Per esempio uno degli ultimi componimenti, intitolato "Le lumache" ovvero "La ciccia in carrozza ha come spunto l'alimentazione povera, che il contadino, il bracciante, il pastore, il carbonaio, il taglialegna si procacciavano mentre erano impegnati nel lavoro o nel pascolo delle greggi. Emerge una conoscenza empirica e utilitaristica, finalizzata a procacciarsi il cibo in un ambiente talvolta ostile. Come raccontano le generazioni anziane, tutte le risorse disponibili, offerte dalla natura, venivano usate per soddisfare le esigenze primarie: nutrirsi, curarsi, procurarsi un rifugio provvisorio, riscaldarsi, ecc.
Nella citata poesia l'argomento sono le lumache, non la vivanda sfiziosa, che oggi fa la gioia dei palati raffinati, les escargots, come amano definirle gli chef, quando nei ristoranti presentano il menù per scegliere i piatti prelibati o succulenti da degustare, ma l'umile piatto che integrava una modesta dieta alimentare. Egli passa in rassegna le diverse specie di chiocciole, descrivendo le loro caratteristiche fisiche (la scòrzola, che è il guscio o conchiglia, la consistenza e il colore, le dimensioni), l'habitat (in particolare le mezzagnòle o le morcinare, piccoli appezzamenti di terreno non coltivati), le abitudini. E ancora le procedure da adottare per cucinarle: preliminare spurgatura (tenendole a digiuno per diversi giorni in un sacco di iuta a maglie larghe, in un secchiello con crusca o con rametti di nepitella), modalità per mangiarle (con uno stecchino o con la spina dell'istrice per cavarle fuori dal guscio, l'eliminazione del merdòcco, cioè della sacca intestinale contenente i residui delle erbe ingerite).
Tra le chiocciole cita innanzi tutto le bavóse, vale a dire la Helix pomatia L. e il Cornu aspersum Muli, (nota anche con la denominazione Helix aspersa), le varietà più vistose; seguono in ordine di grandezza le vetriòle (Eoba- na vermiculata), la cui varietà dal guscio bianco è detta bbiancóna\ poi la ricercata crastatèlla, ovvero la 'chiocciola naticoide' (Cantaereus apertus Born.), la cui conchiglia, di color verdastro in età giovanile, diventa marrone in età adulta. Questa è molto sensibile alla temperatura ambientale e all'umidità, infatti non appena le condizioni diventano inadatte alla sua attività trofica, entra in ibernazione (se le temperature sono troppo rigide) o in estivazione (con temperature troppo elevate o tenori di umidità troppo bassi), riparandosi in buche scavate nel terreno e sigillando l'apertura della conchiglia per mezzo di un opercolo calcareo.
Infine le deliziose lumachelle - le lumacciòle, nella versione piansanese - (Theba pisana, Cernuella virgata e affini), che hanno l'abitudine di estivare su steli di piante o su staccionate, formando aggregati spesso molto numerosi. Particolare attenzione si consiglia di porre alle ruffiane, cioè alle lumache e alle lumachelle "che non hanno il guscio ancora maturo, non calcificato bene", e il lumacaro esperto le individua dal colore del labbro del guscio, che è differente dal resto, risultando più chiaro. Non bisogna prenderle, perché, durante la cottura, il guscio ancora tenero va in frantumi, che ingeriti non fanno di certo bene. Ma esistono altre cautele: per esempio occorre tralasciare le lumache che si trovano nelle vicinanze di un oleandro (Nerium oleander L.), arbusto ornamentale, con fiori di varie tinte, interamente velenoso. Il veleno si trova specialmente nelle foglie e nella corteccia. L'avvelenamento causa gastroenterite, vomito, febbre, diarrea, irregolarità del battito cardiaco e morte. A tal riguardo la sapienza popolare ha elaborato nel tempo ammonimenti sotto forma di proverbi, talvolta di struttura anacolutica: Chi mmòre di lumache e ffónghe nun c'è ssanto che l'assolve (Tuscania); Chi mmòre de lumache e ffónghe cazzomato chi le piagne [varianti: Chi mmòre de lumache e ffónghe nun ze trova chi lo piagne (Tuscania); Chi mmòre de lumache e ffónghe, ssia maledétto 'l cor de chi le piagne (Piansano)], ai quali si allude nei due versi finali dell'ottava sestina, od anche: A ccasa mia mai non zian congiunte ricce, lumache, tartarughe e ffónghe (Tuscania).
I raccoglitori, in genere, si astengono dal prenderle in un determinato periodo dell'anno, come sentenzia il detto popolare: Lumaca de maggio lasciala pe 'l zu' viaggio (Tuscania), Ciumaca de maggio làsciala per zu' viaggio; ciumaca de ggiugno spàscijje o grugno (Civita Castellana), sebbene un'altra differente credenza affermi che le lumache sono commestibili nei mesi privi della 'erre'. Per la verità, a giustificazione del divieto, vengono addotte varie spiegazioni, ma, per conoscere l'origine di certi tabù, dovremmo risalire molto lontano, probabilmente a culti e riti precristiani. Nella poesia un esperto paremiologo può rintracciare l'allusione ad altri proverbi popolari: ad esempio l'espressione all'olio... 'quéllo spregó- ne', riecheggia il proverbio sul condimento dell'insalata: Pe' acconnì l'inzalata ce vò 'no sprecóne (olio in abbondanza), un giusto (sale quanto basta) e 'ri avaro (aceto, uno spruzzo appena) (Tuscania). Anche a Tuscania sono stati attivati alcuni allevamenti di lumache. Ricercata è la chiocciola che prolifera nella contrada Montebello, perché ha un sapore particolare, si potrebbe dire 'tipico'. Il motivo? Trovandosi quella località prossima al mare, come mi scrive lo stesso Laici, il gasteropodo si ciba di "erbe salmastre che attecchiscono sul sasso di calce, è come un crostaceo, ha un altro salirne di quelle che ho mangiato in montagna su a Visso".
Infine, per chiudere, vorrei aggiungere una osservazione di carattere linguistico. Nella quarta sestina ricorre la particolare forma: (e doppo cotta te la trove~) a dòco, cioè 'a portata di bocca', 'pronta per essere mangiata'. Una prima breve indagine a riguardo, non ha prodotto risultati apprezzabili. In assenza di un riscontro immediato in altre parlate a me note, mi sento di avanzare, in via del tutto provvisoria e salvo successive verifiche e rettifiche, l'ipotesi che la locuzione possa essere spiegata come resa in volgare della nota formula latina 'ad hoc'.
luigi. cimarra@libero. it