Ricevo da Regino Brachetti e pubblico nel mio Blog:
In queste tragiche ore, in cui la triste conta del dolore incede martellante, mi tornano alla memoria i pensieri messi in fila in un altro tragico, analogo passaggio: quello del sisma abruzzese del 2009. Come allora, un senso di scoramento, di angoscia: la sensazione del vuoto che dallo stomaco sale alla testa, e forse, in un estremo sussulto di autoconservazione, rende irreale ogni pensiero, ogni ragionamento, nella sorta di istinto auto protettivo che permette di sopravvivere e di sopportare il dolore per un amico che non c’è più; per la perdita improvvisa e inspiegabile di una persona con cui fino a qualche attimo prima condividevi un pezzo del tuo cammino sulle strade della vita; per lo sbriciolarsi delle mura che ti davano sicurezza e serenità.
E poi la ricerca disperata di oggetti, cose che hanno fatto parte dell’esistenza; il rovistare nervoso e febbrile tra le macerie di quella che una volta era la propria casa, per ritrovare pezzi fino ad allora insignificanti di sé stessi, per non vedere strappati anche gli ultimi appigli di normalità.
Dopo l’attimo fatale, in cui tutto precipita, sono i giorni che seguono a dare la reale percezione dell’assenza di certezze che il terremoto lascia addosso a chi ha la sventura di sbatterci contro.
Ho ancora netti, indelebili, i ricordi di quei sventurati giorni del febbraio ’71, in cui la nostra città, la fiera Tuscania, si accartocciò in pochi attimi su se stessa, travolgendo, insieme a tante vite umane, le nostre convinzioni di ventenni pieni di baldanza. Fu come perdere l’innocenza, e trovarsi di fronte ad una realtà nuova, crudele, con la quale nessuno di noi aveva, allora, preventivato di scontrarsi.
Da quel momento in poi fu un rincorrere i ricordi: cercai per giorni l’orologio che mi avevano regalato per la Cresima; salivo e scendevo dai ruderi di quella che era stata l’abitazione della mia famiglia, scavando con le mani, cercando sotto i sassi sbrecciati qualche ritaglio di un passato che non volevo venisse archiviato così in fretta.
Poi, piano piano, la percezione di assenza è stata soppiantata dalla convinzione che non tutto era perduto: che il calore umano, il senso di comunità, il ricordo collettivo non erano precipitati dentro le crepe aperte dalle scosse assassine. Questa è stata la molla che ha permesso ad una comunità ferita di rialzare la testa, e di ricostruire, pezzetto dopo pezzetto, grazie ai tanti volontari, già allora organizzati, al Genio civile, alla Sovrintendenza, al Provveditorato alle opere pubbliche, ogni angolo, ogni vicolo della città abbattuta.
Senza questa prospettiva, forse non ce l’avremmo fatta: forse se fossimo stati trapiantati d’imperio da un’altra parte avremmo perso le nostre radici, ci saremmo sentiti estranei in casa nostra.
Il tornare nei luoghi dell’esistenza precedente ha invece lenito il doloroso disagio della precarietà vissuta fino ad allora, e ci ha permesso di superare i traumi patiti, e di soppiantare la disperazione con un ricordo consapevole e sofferto.
Credo di comprendere, quindi, quello che provano i nostri fratelli reatini, quelli marchigiani, colpiti negli affetti, nelle cose più care: a loro va un abbraccio fraterno, con l’augurio che i pesantissimi travagli di questi giorni, che diverranno, purtroppo, settimane e mesi, possano nel minor tempo possibile trasformarsi in memoria condivisa, dalla quale ripartire, come facemmo noi allora.
Regino Brachetti