UN SEGRETO BEN CUSTODITO: SCOPERTA UNA STUPEFACENTE LETTERA MANOSCRITTA NELLA BIBLIOTECA DI TUSCANIA
Ci sono, ogni tanto, strani incontri fra storia e archivi ed uno di questi è capitato alla biblioteca comunale di Tuscania.
La scoperta è Giscle Malaval, studiosa francese, ospite a Tuscania del presidente dell’ Archeoclub Luigi Salvatori.
“Negli archivi Campanari, nelle le carte sparse ( n° 21 ) si trova una lettera manoscritta non firmata e non datata intitolata : Alcuni cenni per dimostrare chi sia il vero scopritore e Proprietario della Tomba trovata ultimamente in Cerveteri.
In questa lettera – racconta Giscle Malaval - sono menzionati l’arciprete Regolini e il generale Galassi : si tratta evidentemente della tomba etrusca detta Regolini-Galassi scoperta in 1836 e famosissima per i sui tesori d’oro del VII° secolo a.c. che oggi si possono ammirare al Museo Gregoriano del Vaticano.
Questa lettera si presenta come una memoria difensiva per Pietro Manzi (1785-1839) letterato, storico e “archeologo” di Civitavecchia. Molto probabilmente il documento giunge dallo studio legale dell’ avvocato Secondiano Campanari, figlio del più conosciuto Vincenzo Campanari.
Da questo manoscritto si evince che Manzi, dopo aver ottenuto i necessari permessi era vicino a scoprire l’importante tomba, quando interviene l’arciprete Regolini “tutto atteggiato di dolore a pregare il Manzi che dismettesse lo scavo perché esso Arciprete doveva darne parte a un tal cappellano e tanto insistette e sì fervorosamente pregò che il Manzi accondiscese alle sue preghiere”.
Il Generale Galassi, socio dell’ arciprete, asserì che il Manzi gli aveva ceduto gratuitamente i permessi di scavo. Questa cosa però appare alquanto improbabile: Manzi aveva 7 figli e poche risorse, non aveva quindi nessuna ragione di regalare a una persona che non conosceva e di cui non aveva alcun bisogno; comunque, legalmente, il contratto non aveva alcuna validità se non era stata corrisposta alcuna somma. Si legge anche che il generale, per ottenere la cessione provò a fare un scambio, proponendo a Manzi, “vasi neri”, dei buccheri che non avevano evidentemente lo stesso valore dei pezzi in oro che furono scoperti.
Si può immaginare che la vicenda, come era già capitato, aveva avuto inizio dalla soffiata di un operaio che lavorava per Manzi negli scavi, il quale ha provveduto ad avvertire l’Arciprete o direttamente il Generale della imminente scoperta. Si sapeva anche che Manzi era un uomo buono, conosciuto dai suoi concittadini per la sua beneficenza d’inspirazione cristiana.
Anche lo scrittore francese Stendhal, console a Civitavecchia da 1831 a 1841, se pure molto altero, parla nella sua corrispondenza dell’ eccellente Manzi. Proprio per questa bontà d’animo, l’archeologo Manzi, veniva spesso “fregato”. Nel 1834 la Chiesa, che controllava l’intero sistema dell’ archeologia dello Stato Pontificio ed in particolare il commercio dei reperti scoperti, aveva abbassato il prezzo d’un sarcofago scoperto dal Manzi, da 1200 scudi a 300, che gli furono pagati molto tempo dopo e decurtati di altri 100 scudi utilizzando falsi pretesti.
Di questa ignobile situazione, Manzi ne soffriva tanto: gli scavi erano molto onerosi ed altri si arricchivano sfruttando le sue scoperte. Come dice V.L. Matteucci, autore nel 1846 d’una biografia dell’archeologo, Manzi aveva coscienza d’essere “fregato”: era allontanato con falsi consigli « quando doveva cogliere frutto di sue fatiche, e i danari per ciò impiegati. Era suo detto: “Rammenta, Manzi, che avrai la ricompensa del mulo”.
Ma Matteucci afferma ancora di più: “l’unico suo desiderio era il soffrire”, sempre nell’ atteggiamento cristiano. Questa situazione di sofferenza si nota nel suo ritratto: guance incavate, occhiaie e sguardo teso. Meno di tre anni dopo la scoperta della tomba “Regolini-Galassi”, Manzi è morto d’una gastrite biliosa. Una morte segnata da grande sofferenza fisica ma non morale: era per lui giunto il momento di lasciare un mondo di falsità e di cupidigia. Sarebbe per noi il tempo di rendergli giustizia, se si può”.