DANTE. Nel 1823 fu stampato a Firenze un libro che fu scritto nel 1759 da Giuseppe Pelli Bencivenni: “ Memorie per servire alla vita di Dante ed alla storia della sua famiglia” , in cui leggiamo: ” A’ Senatori di Roma cercò Dante di sollecitare la coronazione di Arrigo ( l’Imperatore Enrico VII) , e per esser di più al fatto di ciò che succedeva, venne in Toscanella piccola città del Patrimonio di S. Pietro, di dove scrisse un’altra lettera allo stesso Arrigo in data del dì 26 aprile 1311, nella quale con nuove istanze lo pregava a volgere le sue armi contro la città nostra (Firenze), sgridandolo, per così dire, della sua poca sollecitudine in adempire alle richieste de’ suoi sudditi: né altro frutto ei ne ritrasse se non che una terza condanna proferita in quell’anno stesso.”
Il Rosone di San Pietro a Tuscania
La professoressa Chiara Ponchia dell’Università di Padova nella “ Ricerca sui frammenti dell’aldilà” ha scritto . “I tre volti di Satana sono stati lungamente ritenuti un’invenzione di Dante, che avrebbe raccolto e rielaborato spunti già presenti nella tradizione figurativa, basti pensare” alla professoressa Lucia Battaglia Ricci “ che segnala altri diavoli a tre facce (e quindi ancor più congruenti con il testo dantesco), per esempio i tre demoni scolpiti nel fregio primo-duecentesco che decora le bifore nella parte destra della facciata della chiesa di San Pietro a Tuscania .“
Inoltre la professoressa Alessandra Forte della Scuola Normale Superiore di Pisa ha scritto : “ Per la triformità del Lucifero dantesco, la studiosa Laura Pasquini (professoressa dell’Università di Pisa) recupera l’antica iconografia del vultus trifons , di ascendenza pagana e per lo più riferibile a divinità solari, diventata nel Medioevo, come logica conseguenza , simbolo di una poliformità pericolosa che incarna la potenza del maligno. Una testimonianza particolarmente rilevante in ottica dantesca viene individuata da Pasquini nella facciata della Chiesa di San Pietro di Tuscania – altro documento visivo che il poeta poté conoscere – sulla quale si staglia inconfondibile un Lucifero dal triplice volto.”
La stessa Laura Pasquini ha scritto anche che : “ di fronte al proliferare di divinità a tre teste nei culti pagani, fu in qualche maniera naturale per gli artisti cristiani attribuire ad esse valenze fortemente negative. Così accadde che il vultus trifons finì per divenire anche nell’arte medievale emblema della potenza empia del demonio cui ogni buon cristiano aveva l’obbligo di resistere col vigore della propria fede … Questo è il senso di quell’immagine triforme scolpita sulla facciata del S. Pietro di Tuscania (1250), monumento che presumibilmente Dante ebbe occasione di visitare.
Nella porzione più alta della facciata un grande rosone separa due bifore dedicate l’una, quella di sinistra, al regno dei cieli, l’altra evidentemente a quello di satana. Una maschera a tre volti, coronata e munita di corna, si colloca al di sopra della bifora di destra: dalle due bocche laterali escono racemi entro le cui volute si dispongono infiorescenze bizzarre e demoni dal volto umano con artigli di rapace e code sinuose. Le volute terminano nelle bocche spalancate di un secondo mostro triforme situato al di sotto della bifora, munito di corona, il quale preme sul proprio petto le spire di un grosso serpente. All’inizio del secolo X I I I ° il diavolo in persona si palesa con quella forma triplice del volto adottata quasi un secolo dopo da Dante nel X X X I V ° canto dell’inferno. “
FAZIO DEGLI UBERTI. NEL 1350 Fazio degli Uberti ( Bonifazio di Taddeo di Lapo di Farinata ), pisano di nascita ma da famiglia fiorentina, discendente di Farinata, bandito da Firenze, scrisse il Dittamondo (Dicta mundi ), un lungo poema didascalico in cui racconta di un viaggio intrapreso per percorrere tutto il mondo allora conosciuto dopo un incontro con la figura allegorica della virtù, in compagnia del geografo romano Gaio Giulio Solino che gli offre la possibilità di descrivere i panorami e le varie caratteristiche delle città visitate.
Solino si rivolse a Fazio : “Guarda, mi disse, al mare, e vedi piana con alti colli la Maremma tutta: dilettevole è molto e poco sana. Là è Massa, Grosseto e la distrutta Civita veglia ed èvi Populonia ch’appena pare, tanto è mal condutta. Là è ancor dove fu Lansedonia; … Là è Soana e vedesi Mascona ed èvi Castro povero e men dico ch’a Bolsena si va da terza a nona.
Questa cittadi e altre ch’io non dico funno per la Maremma, in verso Roma, famose e grandi per lo tempo antico. De’ fiumi, che di là più vi si noma, sono l’Ombrone, la Paglia, la Nera e Cecina, che a la marina toma. … la città d’Orbivieto è alta e strana; questa da’ Roman vecchi il nome prese, ch’andavan là perché l’aire v’è sana.
E poi che di lassù per noi si scese, vedemmo Toscanella, ch’è antica quanto alcun’ altra di questo paese. Seguita or che di Viterbo dica, che nel principio Vegezia fu detta e fu in fin ch’a Roma fu nemica. Ma, vinta, poi a li Romani diletta tanto per le buone acque e dolce sito, che ‘n Vita Erbo lo nome tragetta. Io nol credea, perch’io l’avessi udito, senza provar, che ‘l Bulicame fosse acceso d’un bollor tanto infinito.
Ma gittato un monton dentro si cosse in men che l’uomo andasse un quarto miglio, ch’altro non ne vedea che propio l’osse. Un bagno v’ha, che passa ogni consiglio , contra ‘l mal de la pietra, però ch’esso la rompe e trita come gran di miglio. Dal tus (incenso) a Tuscia fu il nome messo, perché con quel gli antichi, al tempo casso, sacrificio facean divoto e spesso. “
Mauro Loreti