● – TRADIZIONI SPARITE: IL FORNO DI UNA VOLTA, IL PANE FATTO IN CASA, “LE VICENNARE” E “IL TAVOLELLO”. - Succede a Tuscania - Toscanella - 2019

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● – TRADIZIONI SPARITE: IL FORNO DI UNA VOLTA, IL PANE FATTO IN CASA, “LE VICENNARE” E “IL TAVOLELLO”.

Pubblicato da in Tradizioni tuscanesi ·
Sul finire degli anni ‘80,  assessore alla cultura Giuseppe Brachetti (detto Pino) in collaborazione con la biblioteca di Tuscania e il prezioso aiuto di Ennio Staccini, venne pubblicato il libro “Contributo allo studio delle tradizioni popolari di Tuscania” di Silviera Cecilioni un libro basato su una ricerca capillare delle tradizioni sparite di Tuscania che fu argomento della sua tesi di laurea. Questo libro, che si può trovare nella Biblioteca di Tuscania, è frutto di un’indagine capillare fatta di interviste a persone tuscanesi dai 10 anni ai 90 anni, nella metà degli anni ‘60. Ne è uscito qualcosa di prezioso, argomenti che forse avremmo perso senza questa indagine, ma che grazie al lavoro di una (allora) giovane studentessa, non abbiamo perso. Un libro prezioso dal quale ho appreso molte cose che non sapevo. Secondo il mio modesto parere è un libro che tutti i tuscanesi dovrebbero possedere ma purtroppo non ci sono più copie in circolazione. Andrebbe ristampato, essendo un libro che non contiene immagini il costo di stampa non dovrebbe essere elevato. Siamo in campagna elettorale e mi auguro che qualcuna delle liste prenda in considerazione questo progetto per aiutare i giovani a non dimenticare “come eravamo”. luigi pica.
 
Le immagini non sono riferite a Tuscania, sono immagini prese dal web che aiutano alla lettura di questa tradizione sparita.


 
IL FORNO. Il forno con il lavatoio pubblico e le compagnie di lavoratrici, che si recano in campagna per i lavori agricoli, sono i cosiddetti «tre salotti» meglio informati sui pettegolezzi e le maldicenze del paese.

Dicendo «forno» non intendo naturalmente i forni razionali, nei quali si confeziona il pane sotto varie forme, che poi viene venduto al pubblico, ma un forno primitivo che esegue la sola cottura del pane confezionato in privato da singole famiglie. Generalmente le «pezzature» sono due: a «pagnotte» rotonde, del peso di circa due chilogrammi; ed a grossi «filoni» aventi lo stesso peso.
Tale sistema è ancora abbastanza in uso, in quanto, dato il sistema di lievitazione naturale, il pane si mantiene più fresco ed è quindi più adatto per essere consumato in campagna e per più giorni.

Il forno ha il cielo a forma semisferica, costruito con mattoni di terracotta, ed ha la base lastricata con lastre di peperino; sul davanti ha un’apertura rettangolare (bocca) che serve per infornare il pane e la legna da ardere; la chiusura si effettua a mezzo di una lamiera di ghisa delle dimensioni di circa cm. 50x60. A fianco di questa apertura ve ne è una piccola, rotonda, del diametro di circa cm. 15, la cui chiusura è costituita da un cilindro di pietra: questa apertura serve come «spioncino» e per regolare la evaporazione dell’acqua contenuta nel pane.

Le due aperture sono sovrastate da una canna fumaria, che aspira il vapore ed il fumo che esce dal forno, quando vi brucia la legna. La sera si mette la legna al centro del forno, in modo che il calore residuo la «secchi», dato che la legna da ardere è, nella maggioranza dei casi, tagliata da pochi giorni. La mattina si incendia; quando è tutta consumata, per mezzo di un ferro a forma di rastrello senza denti, vengono tirati da una parte, vicino allo «spioncino», i carboni residui e le ceneri, in modo che continuino a trasmettere ancora calore; infine, con un panno «mondolo» legato ad un’asta, il forno viene nettato dalle polveri e scorie (il nome di mondolo è poi passato ad indicare anche tutte le persone sporche e poco ordinate).

Il forno in genere ha la capienza di circa 100 pagnotte; ogni cliente ne confeziona circa 10, e perciò per ogni «infornata» si riesce a cuocere il pane per 9 o 10 «vicennare» (clienti che si avvicendano).



Quando una vicennara deve fare il pane, la sera precedente si reca a casa della fornara per prendere accordi, cioè prenotarsi e ritirare il «tavolello»(una tavola larga circa cm. 50 e lunga m. 1,50, dove al mattino verrà sistemato il pane appena confezionato, per essere poi trasportato al forno). Quando il pane viene messo nel «tavolello» si «intela», vi si mette cioè sopra un telo un po’ più grande della tavola, quasi sempre di canapa; con esso si fa una piega ad ogni coppia di pagnotte che vi viene deposta; tale piega serve per dividerla dalla coppia successiva, in modo che non si attacchino. Affinché venga poi riconosciuto quando si toglie dal forno, si «merca» il pane nei modi più vari: con una stella, una croce, un cerchio, ecc. Si ricopre in line con un altro telo di tessuto più «fino» che viene rimesso sotto il pane nei quattro lati del tavolello; da ultimo viene coperto, specialmente d’inverno, con coperte di lana, per accelerare la lievitazione. Nel caso poi che «si lievitasse troppo», per riportarlo in linea con quello delle altre vicennare bisogna ricorrere a bagni freddi con panni bagnati, oppure metterlo all’aperto dopo averlo scoperto.

Quando dunque le vicennare si recano al forno per ritirare il tavolello e mettersi in nota, dovranno anche dire se preferiscono cuocere al primo, al secondo o al terzo turno (sono tre quando il numero delle clienti è alto).

Qui cominciano le prime discussioni, perché nel periodo in cui i lavori della campagna sono più intensi la maggioranza delle vicennare vuol cuocere al primo «forno», in modo che appena infornato il pane esse possano recarsi in campagna; quando poi i lavori agricoli ristagnano, allora vogliono cuocere tutti al secondo o al terzo, per aver modo di riposare al mattino. All’inizio la fornara cerca di convincerle con mezzi persuasivi, tentando di far comprendere a queste donne che tutte nello stesso «forno» non possono cuocere e bisogna che qualcuno venga pur sacrificato; ma queste non intendono ragione, tutte si sentono trattate ingiustamente, e spesso si verifica che qualcuna dica parole che toccano la suscettibilità della fornara. Non è raro, perciò, che succeda un pandemonio: queste «fornare», infatti, forse abbrutite dal lavoro ed innervosite da queste continue discussioni, sono quasi tutte donne colleriche e sboccate.
 
La mattina, per dare inizio alla confezione del pane, inizio che va dalle ore 3 alle 5, a secondo della stagione ed il numero dei forni da cuocere nella giornata, il marito della fornara si reca casa per casa dalle vicennare del primo forno e le chiama per nome dalla strada; attende la risposta, poi dice la frase caratteristica: «Fa ‘l pane! »(questo è l’unico rapporto che ha il fornaio con le vicennare, perché il lavoro del forno è un lavoro prettamente femminile).

Il fornaio si reca quindi in campagna per i lavori agricoli e per l’approvvigionamento della legna, che la sera porta in paese con un «biroccio» trainato da asino o mulo (in tempi più remoti la caricava direttamente sulle bestie). Dopo tre ore circa (tempo necessario per la confezione e la lievitazione del pane) viene la «carreggiatora», donna che ha il compito di ritirare nelle case il pane da cuocere e di riportarvelo cotto.

La «carreggiatora» viene pagata dalla fornara in natura, dato che anche per la cottura la paga è in natura: per ogni vicennara tocca alla fornara una pagnotta, che ella si sceglie (naturalmente è la più grossa); tutto questo quando le pagnotte rientrano in un numero tollerabile altrimenti si paga in denaro.

Le «carreggiatore» sono donne abilissime e bene allenate a portare in testa i «tavolelli» con il pane per dei lunghi tratti che arrivano persino a 800 e 1000 metri; e se trovano per strada la «comare» per fare due chiacchiere, si fermano anche a parlare con la massima disinvoltura. Per portare più agevolmente questo «tavolello» tengono sulla testa un panno avvolto in forma di ciambella: la «coroia».
Al forno, poco dopo, giungono anche le vicennare, perché tutte vogliono essere presenti al momento di mettere il pane nel forno.

Mentre arde la legna al centro del forno, vengono cotte a «fuoco ardente» alcune pizze tradizionali del luogo: il «dimeneguarde» (una pastella molto morbida fatta con acqua e farina), la «pizza a rocchio» (così chiamata perché non si mette in alcun recipiente e si cuoce a contatto della cenere del forno; è a base di formaggio).

Cotte le pizze, la fornara «mondola» il forno e, nell’attesa, si cominciano a passare in rassegna gli avvenimenti del giorno: morti, nascite, fidanzamenti, nozze, ecc.; è facile di qui scivolare nei pettegolezzi e nella maldicenza; non si salva nessuno, dal governo al clero, dalle ragazze alle maritate, dal dottore al farmacista, ed infine sono le stesse presenti a pagare lo scotto, in ordine di successione man mano che se ne vanno dal forno.

Ed ora veniamo al momento più cruciale, quando cioè si deve mettere il pane nel forno; anche qui interessi contrastanti: chi ha il pane lievitato in anticipo, per cause ambientali o altro, vuol metterlo nel forno a costo di sacrificare tutto il pane degli altri; mentre quelle che si trovano in ritardo con la lievitazione vorrebbero che si ritardasse «la messa al forno» del pane, per attendere che anche il proprio lieviti.

Altro motivo di contrasto è poi la scelta del punto dove metterlo a cuocere, dato che nel forno il calore non è uniforme; perciò vi sono delle zone in cui il pane viene più cotto, e dove poco cotto. Se le famiglie di queste vicennare sono di gusti diversi in fatto di cottura, tutto procede bene; se questi gusti sono invece uguali, allora succede il finimondo: quando la fornara mette il pane in una zona che non piace, nessuno le porge la tavola con il pane da infornare; mentre quando la zona è quella desiderata dalla maggioranza, tutte le tavole sono in movimento e spesso capita che si urtano e il pane va a terra; in questi casi oltre a imprecazioni e male parole, finisce sempre con l’accapigliamento generale.
 



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