2. Un colpo improvviso e terribile. - Toscanella - Storia di Tuscania

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2. Un colpo improvviso e terribile.

Il tramonto del medioevo

2. UN COLPO IMPROVVISO E TERRIBILE.
 
Man mano che scorrono sotto i nostri occhi le carte quattrocentesche, in un latino espressivo e plastico, ci si compone lentamente, come in un puzzle, il quadro di una vita monotona, condotta senza troppe preoccupazioni, ma complessivamente serena.
Tra l’appalto di una gabella e l’altra, troviamo (nei volumi delle"Riformanze") i consiglieri comunali entusiasti, per la  cappella, che si sta costruendo (1468) nella  chiesa della Rosa  in onore dei  Santi Protettori.

Si nota la volontà di rinnovare tutto, dalla  rocca del Tartaglia, ai  merlie le  torri della cinta urbana, alle campane delle  torri di S. Pietro, dell’orologio  e di  "Tor della Vela".  Maestri della pietra  e  pittori  vengono ad abbellire Tuscania. Due anni prima (1466) erano venuti, da  Norcia, mastro Giovanni Sparapane  e suo figlio  Antonio, per affrescare una  cappella  dellachiesa di S. Francesco.

Sempre nel 1468, non è ancora cessata la pestilenza estiva, che i consiglieri decidono l’istituzione della  "Gara delle Balestre", finanziata dai banchieri Melle e Manuele di Aleuccio: si effettuerà l’  ultima domenica d'ottobre e il martedì di Pasqua.
Un fatto abbastanza grave venne a turbare, per qualche tempo, la serena esistenza dei cittadini (e degli amministratori).  

Dopo che il cardinal  Giambattista Cibo  salì al pontificato (29 agosto 1484) con il nome di  Innocenzo VIII, suo nipote  Francesco  incominciò a spadroneggiare nello Stato della Chiesa, sperando che lo zio gli creasse uno stato, tutto suo.
Nel marzo 1491, Francesco Cibo aveva mandato a TuscaniaBernardino della Posta, un capitano, che stava ai suoi stipendi. Non conosciamo che tipo fosse costui e che atteggiamento assumesse nei riguardi dei Tuscanesi.

Por ammettendo che una "massa" popolare infuriata oltrepassa il razionale, scatenandosi in eccessi sproporzionati alla causa, dobbiamo ritenere che capitan Bernardino l’avesse combinata proprio grossa, se, in un baleno, la sua persona fu sommersa da una folla inferocita e, quando tutto si calmò, riapparve il suo cadavere, penzolante,  impiccato alla finestra  del palazzo del  Rivellino.

Francesco Cibo, il potentissimo nipote, non sopportò l’affronto e ottenne la condanna dei Tuscanesi, senza che i giudici si premurassero di sapere da quale parte fosse la ragione.

Per fortuna Innocenzo VIII ascoltò, in seguito, le ambasciate tuscanesi. L’8 dicembre la città veniva praticamente perdonata, per"l’audace e atroce delitto", ma restava da pagare una parte della pena: la consegna di  2000 some di grano  alla  Camera Apostolica.

I Tuscanesi incominciarono ad ammassare il grano, nei magazzini di S. Francesco, in attesa di inviarlo a Roma, ma speravano nel condono totale, attraverso continui appelli al Papa.

La questione si stava dibattendo nell’incertezza di come sarebbe andata a finire, quando i Tuscanesi dovettero affrettarsi precipitosamente a vendere all’asta il grano già accantonato, perché si accorsero che una parte era già ammuffita.
Si sperò di porre fine positivamente alla questione, quando il nuovo Papa,  Alessandro VI, venne in visita a Tuscania, nell’ottobre del 1493.

Tra le molte richieste, i Tuscanesi inserirono quella di vendere il grano in discussione e di acquistare, con il ricavato, delle  armi per il potenziamento della difesa cittadina. Probabilmente il Papa rispose con un "vedremo!" molto vago; ma nel marzo 1494, la Camera Apostolica pretendeva tutto il grano, fino all’ultimo chicco.  
Proprio in quei giorni si stavano allestendo, in Francia, i preparativi per un fatto di grande portata storica, che doveva arrecare numerosi lutti, anche a Tuscania:  la calata di Carlo VIII in Italia.

Decisa l’impresa di occupare il  Napoletano, il Re francese entra  in Italia il 2 settembre 1494. Attraverso la Cassia, il 28 novembre, le truppe francesi sono nel Patrimonio.
Alessandro VI  ha paura: sperando in chissà che cosa, nomina il cardinale Alessandro Farnese come legato del Patrimonio.

Il 10 dicembre Carlo VIII è a Viterbo, dove lascia un drappello a presiedere la "rocca Albornoz". Il Papa è ossessionato dall’incontro che non può evitare.
Mentre Carlo s’avvia lentamente verso Roma, il 26 dicembre arriva a Tuscania una lettera del Papa: "Per accogliere, nel migliore dei modi, il "criastianissimo" Re dei Franchi  - dice il testo -  è necessario che mandiate subito, per la via più breve e più sicura, tutto quello che avete: frumento, vino, biade e volatili".

Carlo arriva il 15 gennaio e si intrattiene a Roma per un mese. Nei colloqui egli chiarisce al Papa (costretto a fare buon viso a cattivo gioco) la sua decisione di impadronirsi del Napoletano.

Il 30 gennaio il Papa scrive una letteraccia ai Tuscanesi, che, invece di mandare grano, gli hanno inviato ambasciatori: "Se non mandate subito gli approvvigionamenti richiesti (e ora concordati anche con i vostri ambasciatori) cadrete nella nostra ira  - scrive seccato il Papa -  e perderete la nostra grazia!".

Il 22 febbraio Carlo entra, trionfante, a Napoli.
A nord qualcosa si è già mosso: Milano, Venezia, Massimiliano d’Austria e Ferdinando di Spagna hanno creato una "lega antifrancese". Il Papa, impaurito e titubante, vi entra a far parte solo ai primi di aprile.  

La reazione di Carlo VIII è immediata. Il Papa invoca aiuti: solo il doge veneziano,  Antonio Barbadigo,  gli manda 500 cavalieri.

Il 22 aprile il Papa scrive ai Tuscanesi e ai Viterbesi, comunicando loro che il latore della lettera,  Ludovico da Todi,  ha l’incarico di dirigere le operazioni di sistemazione e vettovagliamento per i 500 cavalieri veneziani (250 per ciascuna città).

A Viterbo è presto fatto, mentre i 250 cavalieri, destinati a Tuscania, devono trascorrere le notti all’aperto perché la Città si rifiuta di ospitarli.

Nuova lettera del 13 maggio: il Papa, adirato, intima di alloggiare immediatamente i cavalieri, sotto la pena della  sua "indignazione", della multa di  3000 ducati d’oro  e della condanna per  "ribellione allo Stato". Tuscania sbatte le porte in faccia a Lodovico da lodi, che, dopo l’inutile tentativo di mediazione, torna dal Papa a mani vuote.

A questo punto, Alessandro VI, infuriato, condanna (17 maggio) i Tuscanesi a pagare, su due piedi, la salata  multa di 2000 ducati, perché non credano di essere "duri" e non abbiano modo, in futuro. di fare i gradassi andando a raccontare d’aver disubbidito al Papa;  se, poi, si ostineranno ancora a non alloggiare i Veneziani, incorreranno in altri 5000 ducati di pena, nell’indignazione e nell’interdetto papale e nella condanna per "ribellione allo Stato".

Dieci giorni dopo (27 maggio) corre voce che Carlo stia per venire a Roma. Alessandro VI si rifugia nella Rocca di Orvieto; lo seguono i cavalieri veneziani.
Carlo, superata Roma, il 4 giugno (giovedì) è a Ronciglione, da dove manda a chiedere un incontro con il Papa. All’alba del mattino seguente (venerdì), il Papa fugge precipitosamente a Perugia; Carlo entra in Viterbo, a tarda sera, in testa alle sue numerose truppe, che affluiscono anche il giorno seguente.
La domenica mattina  (il 7, festa di Pentecoste),  giunge a Viterbo il comandante della retroguardia (8000 uomini),  Matteo di Botheau,consigliere e ciambellano di Carlo VIII, figlio di Giovanni Il duca di Borbone e di Auregne, meglio conosciuto con il nome di «  Gran Bastardo  ».

Impossibile alloggiare in Viterbo: viene dirottato su Tuscania. Qui, però, la ricettività è già satura, perché, oltre ai normali abitanti, ci sono diverse centinaia di  operai agricoli,  scesi dai  paesi dell’A pennino,  come di consueto, per la mietitura.  
Mentre il Gran Bastardo giunge a Tuscania, è già pomeriggio e molti cittadini si avviano verso la  chiesa si Santa Maria della Rosa  (divenuta cattedrale provvisoria) per cantare i Vespri.

I Francesi domandano vettovaglie e alloggio per la notte.
Si nega. Si insiste. Volano parole grosse.
Il sangue di un cavaliere e di due fanti francesi uccisi bagna il terreno. È il segnale della battaglia.

Le porte sono chiuse in fretta, ma basta un po’ di fuoco per renderle inutili.
Ottomila soldati irrompono per le vie di Tuscania. Hanno ordine di trucidare chiunque, tranne le donne e i bambini. Il "sacco" nella Città è di breve durata; alla fine, i Francesi abbandonano l’abitato, carichi d’oro, d’argento e di mille oggetti rubati. Catturano molti uomini e li trascinano via prigionieri.

Dopo una pausa, un’altra ondata irrompe per le vie, sparse di cadaveri e di feriti: sono le centinaia di persone, che asserragliate nella  cattedrale di Santa Maria della Rosa  fin dall’inizio dei Vespri, si precipitano ora, forsennate, alla ricerca disperata dei loro congiunti.
Dalla  Torre Ciglioni, da  Tor della Vela, dalle altre della  Rocca Tartagliae della  cerchia urbana, scendono, in preda al terrore, quei pochi che vi si erano asserragliati e che i Francesi, nella fretta di uccidere, non si erano dati nemmeno la briga di stanare.
Dopo la notte di lutto, si contano i morti: sono circa 800. Ci sono donne e bambini; molti sono anche i  montanari dell’Appennino.

All’alba la triste notizia è portata ai Viterbesi, che subito si fanno in quattro per portare aiuto ai poveri Tuscanesi.  
Corrono da  Carlo VIII. Pregano. Un messo è già partito, a spron battuto, a rincorrere il  Gran Bastardo  con l’ordine di lasciare prigionieri e bottino. Ma l’ordine non viene eseguito.

Partono, intanto, da Viterbo,  Mariano Nicolai  e  Paolo Gentili: portano offerte a Tuscania; con loro ci sono le confraternite laiche al completo; imedici  sono carichi di medicinali e di bende per i feriti.

La notizia intanto si diffonde: a Orvieto la portano, a  Tommaso di Silvestro  (che ce l’ha tramandata), i "montanari" feriti, che tornavano ai loro paesi appenninici.
Mariano Nicolai corre da Tuscania a Viterbo: il Gran Bastardo non ha ancora rilasciato i prigionieri! Allora si scrive al Re (12 giugno), che è ormai alle porte di Siena: "Aiutare i Tuscanesi  - dice la lettera -  è come aiutare noi, perché consideriamo i Tu. scanesi come nostri concittadini!" Questa volta l’ordine rinnovato al Gran Bastardo viene eseguito: i poveri prigionieri tornano a casa con quasi tutto il bottino.
Ora la marcia di Carlo si trasforma in fuga.

Da Siena ripiega per  Pomarance  (15 giugno). Non gli è possibile sfuggire all’esercito della "lega", che lo investe a  Fornovo sul Taro  (6 luglio). L’esito della battaglia è incerto e Carlo ne approfitta per raggiungere la Francia, ma il  Gran Bastardo è fatto prigioniero.
Anche il  Papa  è tornato a Roma. Dal 23 al 25 giugno è transitato per Viterbo. Non una parola di cordoglio per i poveri Tuscanesi: forse, conservava ancora del rancore verso di loro, per il comportamento tenuto nei mesi precedenti.

In modo veramente encomiabile si comportano invece le autorità delcomune di Pomarance  (allora, Ripomarance).

Intorno alla metà di luglio, esse avvisarono il Comune di Tuscania che una parte del bottino era stato recuperato e i Tuscanesi potevano andare a prenderselo.
Furono mandati  Antonio Scagnozzi  e  Antonio Malagigi, che, mentre ricevevano il  "Maltolto", comunicarono ai presenti una decisione del Comune di Tuscania: "Qualora i Pomarancini avessero avuto occasione di venire o di transitare con le loro merci nel territorio di Tuscania, sarebbero stati esenti dal pagamento di qualsiasi gabella, per sempre". Almeno, così, il Medioevo si chiudeva con un gesto di simpatia e di amicizia, dopo tanti lutti e tribolazioni.  

 
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