La fine della “libertà comunale”
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Il periodo comunale
LA FINE DELLA "LIBERTÀ
COMUNALE".
Nel ventennio successivo al tentativo di "signoria orsina",
la situazione a Tuscania diviene confusa ed inconcludente. Dall’analisi dei
numerosi episodi, che si potrebbero raccontare, non appare una linea
conduttrice chiara, forse perché chiari non erano gli obiettivi che i Tuscanesi
intendevano conseguire: la causa di tutto ciò va vista nell’assenza di forti
personalità locali, capaci di imprimere un volto caratterizzante alla
Città.
Sono
gli anni di Bonifacio VIII, il Papa che incentrò la sua azione
nella lotta contro l’odiata famiglia dei Colonna, nella mira di innalzare la
sua: i Caetani. Papa Bonifacio non toccò direttamente il Patrimonio, anche se,
qua e là, insediò come podestà, persone a lui fedeli (per lo più di Anagni, la
sua Città).up
Ad Orvieto si fece eleggere egli stesso capitano del popolo, nel 1296, e poi
podestà, per tutto il suo pontificato (sostituito, naturalmente, da
"vicari" di sua scelta). Sorte non dissimile toccò a Tuscania.
Nel 1297 era podestà Amato da Anagni (il toponimico la dice
lunga). Costui, il 5 luglio 1297, mandò in esecuzione un piano, probabilmente
predisposto già dal Papa: convocato il Consiglio generale e speciale, fu
votata, all’unanimità, l’elezione di Bonifacio VIII a podestà a vita di
Tuscania, ad iniziare dall’uscita di Amato.
Non contento di ciò, Amato fece convocare tutto il popolo, richiamato al suono
delle campane a distesa, sul quartiere della Civita, in Piazza S.
Pietro. Con una scena grandiosa, quasi preparata su un copione, un grido
unanime di approvazione uscì dal popolo e fu ratificato quanto già era stato
precedentemente approvato. Così, davanti al popolo schierato, e con il suo
consenso, terminava la libertà comunale tuscanese, durata circa 150
anni.
Nelle forme esteriori, naturalmente, non cambiava niente, anzi gli organi
comunali funzionavano come prima e, sotto certi aspetti, forse meglio, con più
energia nel mantenimento dell’ordine e nel controllo dei diritti comunali, come
avvenne, ad esempio, nei confronti del castello di Montebello.
Qui Giacomo da Bisenzo era ormai vecchio e stava per lasciare le redini a suo
figlio Guittuccio. Costui fu convocato a Tuscania e dovette
rinnovare il giuramento di fedeltà, già effettuato dal padre 39 anni prima, con
le solite clausole di sottomissione, relative principalmente al diritto di
pascolo, di legnatico per i Tuscanesi e di esenzione dal pagamento del pedaggio
a condizione di reciprocità tra gli abitanti di Tuscania e di Montebello.
Guittuccio giurò anche per Castel Marano, davanti ai due "vicari" di
Papa Bonifacio. In sostanza egli mantenne quasi sempre fede ai patti,
certamente più di suo cugino, Galasso di Piansano.