3. La ribellione dei castelli del distretto - Toscanella - Storia di Tuscania

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3. La ribellione dei castelli del distretto

La sottomissione al Campidoglio

3. LA RIBELLIONE DEI CASTELLI DEL DISTRETTO

Come si è ben compreso, la sottomissione al Campidoglio in pratica non comportò sconvolgimenti radicali a Tuscania, dove la vita scorreva con lo stesso ritmo: era cambiato solo l’asse di riferimento; non più Tuscania-Reverenda Camera Apostolica, ma Tuscania-Campidoglio; per il resto tutto procedeva come prima.

Non così la pensarono i signori di alcuni castelli del "distretto", che interpretarono l’episodio come una perdita di prestigio della Città, quasi una deminutio capitis, e, di riflesso, come un affievolimento del suo potere accentratore nei confronti dei castelli subalterni.

Bisognava provare, comunque, se la morsa autoritaria poteva ormai considerarsi meno rigida e, quindi, suscettibile di allentamenti o, addirittura, con buone possibilità di svincolarsi totalmente da ogni ingerenza tuscanese.

a) Galasso di Nicola da Bisenzo, signore di Piansano.

Il primo che ci volle provare fu Galasso. Era trascorso un anno appena dalla sottomissione di Tuscania al Campidoglio. I primi di maggio 1301, Galasso prese contatto con Viterbo per avere le spalle sicure in caso di imprevisti. I Viterbesi non cercavano altro; lo nominarono persino conte e rispolverarono tutti i documenti con cui suo bisnonno, Guitto II conte di Vetralla, s’era sottomesso a Viterbo, nel 1170. Stipulare un atto di alleanza, che si tradusse poi in sottomissione, fu tutt’uno.
A Tuscania la reazione fu immediata. Si allestì subito un esercito, che marciò inferocito e pose l’assedio a Piansano. I Viterbesi, rapidamente avvertiti, corsero in difesa del loro nuovo alleato-suddito.

Nel sentire che un esercito stava per sopraggiungere contro di loro, i Tuscanesi preferirono ritirarsi, rinviando la prova di forza ad una migliore occasione. Ormai tranquilli, i Viterbesi incominciarono subito a spremere Galasso, ingiungendogli, alla fine di maggio, l’obbligo di far confluire tutti i prodotti agricoli piansanesi sul mercato viterbese, con la motivazione che il raccolto non si prevedeva buono. Evidentemente i Viterbesi sapevano far bene i loro interessi, a discapito dei Tuscanesi..
La partita, comunque, fu sospesa, ma non definitivamente chiusa.

b) Guittuccio di Giacomo da Bisenzo, signore di Montebello e di Marano.

Visti i risultati, anche Guittuccio, il cugino di Galasso, volle tentare la prova per svincolare, se non il castello di Montebello, almeno quello di Marano, situato tra Piansano e Bisenzo. Gli andò male, ma dimostrò più astuzia di Galasso.
Aveva capito che svincolarsi da Tuscania per cambiare padrone non aveva senso; cercò allora la via legale, portando la lotta su un piano giuridico piuttosto che su un campo di battaglia.

Tuscania rispose sullo stesso terreno e si rivolse al Tribunale dell’Inquisizione, denunciando Guittuccio (era degno figlio di suo padre Giacomo, ancora vivente) come eretico e ghibellino!

L’inquisitore, fra Consalvo d’Aragona, nella sentenza del 2 dicembre 1303, condannò Guittuccio (non come eretico, per fortuna, altrimenti ci avrebbe lasciato la pelle o, quanto meno, la confisca dei beni); gli impose di starsene buono e sottoposto al Comune di Tuscania, rispettando i patti da lui giurati appena cinque anni prima.

Da questo momento, i rapporti tra Tuscania e Guittuccio divennero ottimi; si incrinarono lievemente una ventina d’anni dopo (1323), ma fu cosa di poco conto.

c) Il podestà Lorenzo di Sant'Alberto e la questione di Piansano (1305).

Visto che la via giuridica produceva migliori frutti che non l’uso della forza, si volle risolvere su questa strada anche la questione di Piansano.
Non sappiamo di chi sia il merito, ma non possiamo sottovalutare la capacità diplomatica dei podestà, che il Campidoglio annualmente inviava. Se è vero che essi erano fedeli esecutori di ordini, non si può dubitare che, salvaguardando i diritti di Tuscania, essi arrecavano un beneficio soprattutto al Campidoglio.

A Roma c’era stata una certa agitazione; le forze popolari avevano preso il sopravvento ed ora in Campidoglio sedevano, Paganino della Torre, come senatore, Giovanni da Ignano, come capitano del popolo.
Tra le misure, che essi adottarono, ci fu quella di inviare a Tuscania, come podestà, il nobile Lorenzo di Sant'Alberto, un romano tra i più in vista, che collaborava con loro e viveva da vicino le vicende capitoline.

Giunto a Tuscania e presa conoscenza dei problemi, il podestà Lorenzo aprì immediatamente un contenzioso contro Galasso. Fece redigere le copie degli atti di sottomissione del castello di Piansano e rimise tutto il fascicolo al "suo" senatore capitolino, Paganino della Torre.

La questione andò a lungo qualche mese, tra condanne, appelli, dichiarazioni di contumacia contro Galasso e ingiunzioni ai Viterbesi di starsene buoni (furono minacciati con le armi). Alla fine (18 giugno) la sentenza, inappellabile, piombò su Galasso: Piansano era compreso nel distretto di Tuscania, quindi doveva tornare all’obbedienza. Ai Viterbesi non restò altro che far buon viso a cattivo gioco.

 
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