10. La signoria di Matteo Orsini - Toscanella - Storia di Tuscania

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10. La signoria di Matteo Orsini

La sottomissione al Campidoglio

10. LA "SIGNORIA" DI MATTEO ORSINI (1329-1334).

Seguì un periodo di lotte e di sconvolgimenti in tutto il Patrimonio. Il ghibellinismo imperversava.
I rettori, non sempre all’altezza delle difficili situazioni, per arginare i danni venivano aiutati dal legato papale che, di solito, risiedeva a Roma: era, in quegli anni, il card. Giangaetano Orsini. Con i suoi interventi si riuscì a ottenere un po’ di calma, ma l’arrivo dell’Imperatore Ludovico il Bàvaro, accolto dal ghibellino Silvestro Gatti in Viterbo (2 gennaio 1328), fece ripiombare la situazione nel caos.

Quando il Bavaro finalmente abbandonò il Patrimonio, il legato card. Orsini poté intraprendere un’azione di recupero del terreno perduto. L’obiettivo principale era la ripresa di Viterbo, dove i ghibellini erano divisi in due fazioni: quelli di Silvestro Gatti e quelli di Faziolo di Vico.

Anche la sottomissione di Tuscania era uno dei nodi da risolvere: Giovanni XXII incitò più volte il legato a riprenderla; gli scrisse il 16 giugno 1329 ricordandogli le numerose lettere inviate, inutilmente, al Campidoglio e ai Tuscanesi; bisognava con tutti i mezzi riprendere Tuscania, "essendo questa Città - scriveva il Papa - troppo necessaria agli interessi della Chiesa". E il card. Orsini vi riuscì.

Questo non è strano, perché se è vero che egli era il legato papale, "in Roma sembra che conseguisse - scrive il Dupré Theseider - per iniziativa dei Romani stessi, il titolo di capitano del popolo e forse anche quello, non più identificabile nelle sue mansioni, di rettore".

Quindi la posizione di Tuscania era alquanto confusa: non si staccava dal Campidoglio, ma contemporaneamente tornava alla Chiesa.

La verità è che Tuscania cadeva nuovamente sotto l’influenza degli Orsini: il card. Giangaetano si trattenne nella Città per tutta l’estate (1329) e di lì organizzò le trattative con i ghibellini di Viterbo, facilitate dall’assassinio di Silvestro Gatti, sgozzato personalmente da Faziolo di Vico.

Il cardinale, in novembre, poteva entrare trionfante in Viterbo e lasciava a Tuscania un membro della sua famiglia, Matteo Orsini, che divenne così il vero arbitro della amministrazione cittadina.

Sul punto più alto del terziere di Poggio Fiorentino, egli fece costruire una "rocca" ben munita, per difendersi da eventuali assalti e da rivendicazioni di chiunque sia.
La "rocca", rimaneggiata diverse volte, nel Cinquecento ancora esisteva, ma poi fu inglobata e "cancellata" dalle sistemazioni urbanistiche effettuate successivamente in quella zona, compresa tra Piazza della Rocca, la via omonima, fino al palazzo della Dogana pontificia.

Il nuovo rettore del Patrimonio, Pietro d’Artois, non digeriva troppo l’invadenza degli Orsini (Napoleone Orsini, padre di Matteo, si era insignorito di Nepi, Orte e Gallese). Il rettore, d’altronde, non era uno sprovveduto, né giunto di fresco dalla Francia, perché aveva ricoperto per diversi anni la carica di tesoriere del Patrimonio, poi quella di vicerettore, ora quella di rettore; ed era continuamente in contrasto con il legato Orsini, per la sua invadenza.

L’attrito tra il rettore Pietro e Matteo Orsini divenne aperto ai primi di febbraio del 1330. Dapprima il rettore a chiare note gli scrisse di non usare Tuscania come luogo di ricovero e di protezione "per malandrini e ladroni", che ne avevano fatto un centro delle loro scorrerie; poi si lamentò col Papa del comportamento dei famigliari del legato, sia Matteo che Napoleone Orsini.

Giovanni XXII prese subito posizione e, il 30 agosto, scrisse ai due Orsini di non ostacolare il rettore nell’esercizio della giurisdizione su Tuscania, Nepi, Orte e Gallese. A Matteo, in particolare, rimproverò l’aiuto che forniva ai malfattori: la sua nuova rocca, costruita dentro Tuscania, stava divenendo un vero covo di banditi; lo esortò a non approfittare della protezione del card. legato, perché aveva inviato una chiara e ferma lettera anche a lui, richiamandolo severamente per le usurpazioni nel Patrimonio.
Parole al vento. Matteo continuò a dominare indisturbato in Tuscania. Però non si fece attribuire nessuna delle cariche comunali "importanti"; ne preferì una minore, quella di "sindaco generale": rivestito di tale funzione, era in grado di bloccare l’attività di qualsiasi ufficiale, sia il podestà che i priori, mediante la "protestatio". L’ufficio del "sindaco generale" ricordava, sotto certi aspetti, la potestà dei "Tribuni della Plebe" di Roma antica, che agivano utilizzando all’occorrenza il diritto di "veto".

Così Matteo restò "signore" di Tuscania, fino al 1334. Riapparve nel 1340 e ricevette dai Tuscanesi una carica analoga, quella di "sindaco e difensore del Comune", ma nel periodo successivo i suoi interessi si orientarono verso Orvieto.

Tuscania tornò, così, all’obbedienza del rettore del Patrimonio, Filippo di Cambarlhac; poco dopo, però, le milizie capitoline ebbero la meglio, rioccuparono la Città, che dipese nuovamente dai senatori del Campidoglio.

Giovanni XXII lanciò allora l’interdetto contro Tuscania, ma non ebbe il tempo di agire contro i senatori, perché morì (4 dicembre 1334). A scomunicarli pensò poi Benedetto XII, ma tutto rimase come prima.

 
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