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A spasso per necropoli

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La Tuscanese comincia a discendere prima delle curve che conducono al ponte sul Marta.
A destra abbiamo il fiume che scorre ai piedi del pianoro di Pian di Mola su cui siamo diretti.
La nostra meta è la sua necropoli che in tutta la sua estensione mette in mostra tombe che vanno dall’VIII secolo fino al I in un ambiente scenografico che ha come cornice una vegetazione in pieno rigoglio, la necropoli della Peschiera sull’altro versante della valle e il colle di San Pietro a sud-ovest su cui svettano le torri e appare la facciata della stupenda basilica preromanica.
Man mano che l’auto avanza ne scorgiamo il profilo che presto scompare alla vista mentre proseguiamo verso la fine delle curve dove imbocchiamo la strada laterale che porta alla cartiera e si inerpica poi a Pian di Mola.

Il luogo deve il suo nome ad un molino, la “Moletta”, che una volta era in piena funzione nel fondovalle.
Sfruttando le acque del Maschiolo veniva utilizzata per molire il grano di generazioni di tuscanesi finché una alluvione negli anni ’60 se la portò via completamente lasciandola solo nella memoria delle persone più anziane.
Parcheggiate le macchine ai bordi della strada bianca, iniziamo la discesa in un terreno dove l’erba ci arriva abbondantemente ai fianchi, guidati da Mario Sanna che procede sicuro come se possedesse un navigatore satellitare incorporato.
Poi il terreno prende la fisionomia di un agevole sentiero che scende a mezza costa dove ci attende la tomba a casa con portico, incastonata fra altre tombe a dado, in origine del tipo a casa.

L’effetto è sicuramente scenografico: nella parete sfilano una accanto all’altra, lievemente sfalsate, le tombe scavate nel caratteristico tufo dal colore caldo, assediate da una vegetazione prepotente dove si distinguono lecci, ginestre, sugheri, cerque, rovi, sambuchi, scopie, olivelli e oliterni, mentre ci giunge un odore pungente di aromi selvatici.
Il loro intrigo costituisce un sicuro rifugio per cinghiali, volpi, istrici e tassi mentre echeggiano a destra e a sinistra i gorgheggi degli uccelli.
Apprendiamo che qui fanno il nido piche, corvi, ghiandaie, merli e cuculi e il verso dell’upupa accompagna il sonno interminabile degli antichi tyrsenói.

Sopra sfilano le tombe del periodo più antico, mentre a quota inferiore si trovano i sepolcri rupestri dei secoli della romanizzazione (III - I sec. a.C.).
In realtà non vediamo niente dal momento che una impenetrabile coltre vegetale ricopre tutta la costa fino al fondovalle da cui ci giunge il rumore delle acque del Maschiolo che scorrono tranquille.
A breve distanza giungiamo al complesso monumentale più celebrato di questa necropoli: la Tomba a casa con portico tetrastilo (575 a.C.). Riparata da una tettoia, in buono stato di conservazione, fu scoperta negli anni ’80 dai soci del locale Archeoclub che stavano ripulendo la zona.

La facciata presenta due finte porte ai lati di quella reale ed è preceduta da un portico con quattro colonne, inquadrato da ante e impreziosito da eleganti modanature di gusto ionico. L’ambiente interno è costituito da tre celle e quella centrale ha la funzione di vestibolo. Sul columen erano collocate come ornamento due sfingi e un leone ruggente ed una nutrita serie di cippi ad omphalos e a casetta. Il tetto a due spioventi risulta definito lateralmente da frontoni sormontati da due rari acroteri del tipo a disco e quello più complesso decora il lato corto della tomba orientato a sud, in direzione del colle di San Pietro.
Il tetto piano del portico assolveva anche alla funzione di piattaforma per il culto funerario, raggiungibile per mezzo di una scaletta addossata al lato corto di sinistra.

La tomba, in parte scavata nel banco tufaceo e in parte costruita, era collocata in una posizione di studiato risalto e cioè presso la sommità della via sepolcrale che scendendo verso il fondovalle proseguiva in direzione del colle di San Pietro.
“Il complesso monumentale di Pian di Mola -scrive l’archeologa A. M. Sgubini Moretti, (Guida al Museo Archeologico di Tuscania) può essere considerato un punto di riferimento fondamentale nella storia dell’architettura funeraria etrusca. Non solo, ma l’imponente sfilata di tombe rupestri che ad esso fa da quinta offre nuovo credito a quanto già in precedenza proposto circa la possibile identificazione di Tuscania quale centro elaboratore e propulsore di un modello architettonico che solo più tardi sembra diffondersi verso nord e verso sud”.

Esaminati attentamente i dettagli, esternate le osservazioni e i problemi, ci attardiamo su alcune tombe a fenditura superiore e ad ogiva databili all’VIII e inizi VII a.C. E’ Mario a dirci che sono le più antiche e riproducevano la capanna e che nelle tombe a camera il columen in negativo è il residuo di questa forma architettonica, mentre il columen in positivo imita la casa a due piani.
Ora vogliamo proseguire verso la Tomba del Dado che a specchio è collocata nel versante opposto della vallata. Questo era il progetto iniziale ma dobbiamo rinunciarvi per una vegetazione che fa da muro e non offre varchi di sorta.
La tomba della necropoli della Peschiera che in piena tridimensionalità imita la casa etrusca, va citata per un fatto particolare.
Scoperta negli anni ’60 dall’assuntore di custodia Giovanni Tizi (Archeologia n. 38 , Roma 1967, p. 87), scavata e restaurata dalla Soprintendenza, dimostra con l’evidenza dei fatti quanto inconsistenti siano le valutazioni degli archeologi che scrivono a tavolino, con una visione settoriale dei fenomeni archeologici, senza la conoscenza dei luoghi e la necessaria interrelazione delle emergenze che presentano.

La tomba, databile al VI sec. a.C., annullava le convinzioni di quanti consideravano Tuscania  un centro tardo etrusco di scarsa importanza, basandosi sugli scavi che nel XIX secolo avevano restituito solo testimonianze di epoca recente.
E’ giunto il momento di lasciare Pian di Mola. Ma dove andare se non c’è accesso all’altro versante della valle?
Chiedo a Mario se conosce la necropoli di Sasso Pinzuto.

Non l’ ho mai visitata, né letto niente su di essa. So solo che c’è il “sasso” che dà il nome alla zona: una specie di grosso obelisco naturale e questo all’occhio dei primitivi indicava il carattere sacro della zona. La nostra guida ci porta in un’area contigua e ci fa visitare un tumulo interamente ricavato nella roccia, con dromos, celle tripartite, due letti in ogni camera e travature nel vestibolo che imitano la tettoia. Il luogo è un tripudio di fiori selvatici, sopra il tamburo del tumulo e tutt’intorno.
Cornice migliore gli etruschi non potevano chiedere.

Poi Mario ci conduce a visitare un classico delle nostre terre: una cava di tufo aperta negli anni ’50 su una zona piena di tombe a fenditura superiore, poi, per fortuna, prontamente bloccata. Il luogo successivo è una rarità.
Interamente sepolta sotto la vegetazione, impossibile da individuare per chi non ha gli Etruschi nel sangue, una tomba a due ingressi.
Facendosi a fatica largo tra erbe ed arbusti, Mario ci conduce in fila indiana al primo e al secondo ingresso: sono due tombe “congiunte” con tetto a spiovente, columen in negativo e banchine interamente sommerse dalla terra.

Il luogo che visitiamo successivamente è a qualche centinaio di metri più sotto e qui Tuscania ci si presenta in tutta la sua magia.
Camminiamo in discesa nell’antica via Clodia. Non vediamo basoli, ma il fondo stradale incassato nel terreno e il profilo del colle di San Pietro con le torri e la basilica sullo sfondo rivelano che stiamo percorrendo un’antica strada etrusco-romana anche al più digiuno di archeologia. Ci attendono in successione una tomba a “forno” sulla sinistra che precede i manufatti etruschi e una profonda grotta sulla destra. Con la volta interamente affumicata e piena di strame che rivela un uso come rifugio per le bestie che si protrae fino ai nostri giorni, lascia indubbi segni della mano dell’etrusco. Mario ci fa notare le tracce delle picconate alle pareti: una più grossolana nella parte inferiore ed una più ravvicinata e pulita in quella superiore.

C’è poi la volta a spiovente e la parete di sinistra provvista di tre incavi contigui, come absidi di tre altari. Ma i resti archeologici non finiscono qui. In prossimità della grotta, nell’altro lato della strada, una sorgente che fa affluire le sue acque da uno stretto cunicolo dovuto alla mano dell’etrusco. Tutti simboli del sacro che si ripropongono nel fluire dei secoli per arrivare alla presenza cristiana. A pochi metri di distanza visitiamo infatti i ruderi di una chiesetta molto antica. Priva di tetto, rimangono solo le mura perimetrali, una piccola abside nella parete di fondo e i pilastri di tre arcate che dovevano scandire lo spazio dell’unica navata.

Come a dire che la costruzione cristiana fu edificata per ricapitolare quello che presentavano le epoche precedenti: il “cielo” rappresentato dall’abside riprende il cielo del manufatto preistorico e la navata suddivisa dagli archi in tre zone riprende la parete tripartita della grotta. E la sorgente? Naturalmente il “Cristo”, da cui sgorga l’unica acqua che disseta e la luce, “la luce vera che illumina ogni uomo”.

A chi era dedicata questa piccola chiesa che si intromette in una suggestiva zona densa di simboli pagani? Apprendiamo che era dedicata a San Potente e che la prima testimonianza compare in una bolla papale del 750 circa. Una delle rare chiese precarolinge che aumenta il fascino di una zona archeologica dove abbonda il sacro e ne accresce il mistero.

Mario Tizi
socio Archeotuscia

 
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