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Braccio se la prese con i Romani, che si mostravano tiepidi e si disinteressavano della difesa di Porta S. Giovanni. Capito che la loro mancata collaborazione avrebbe portato ad una resa disastrosa, anche per l'insorgere tra i soldati di una grave epidemia, il 26 agosto Braccio preferì battere in ritirata insieme al Tartaglia da Porta Flaminia, dando ordine di tagliare Ponte Milvio e affidando i compiti di retroguardia a Niccolò Piccinino. Il giorno successivo lo Sforza entrava in Roma da vincitore.
Il primo atto fu quello di imprigionare in Castel S. Angelo, d’accordo con l’Isolani, il cardinale Stefaneschi, che vi morì due mesi dopo, il 31 ottobre 1417. Appena messo in carcere lo Stefaneschi, il 3 settembre venne reso noto anche il piano che costui aveva progettato insieme a Braccio ed al Tartaglia, che si comportava "come un’orsa verso gli agnelli": secondo il resoconto del card. Isolani, di cui si è già fatto cenno, Giovanni Vitelleschi da Corneto, segretario del Tartaglia, era andato a Valenza a trattare con il papa avignonese Benedetto XIII, che si obbligava a depositare 60.0000 ducati nelle banche fiorentine, mentre i suoi collegati si impegnavano a muoversi da Civitavecchia verso Ostia e Castel S. Angelo, per sloggiare il presidio napoletano e consegnare Roma a Benedetto XIII.
Ma questo progetto andava in fumo per l’arrivo inopinato a Roma dello Sforza, che, di là, mosse contro il Piccinino, lo sconfisse a Frascati e lo catturò. Ma Braccio era ormai riuscito a porsi al riparo nei suoi territori ed attendeva i nuovi eventi, studiando la situazione trattenendosi a Narni.
Allora lo Sforza si lanciò all’inseguimento del Tartaglia verso Tuscania: ce l'aveva a morte con lui, non solo per i vecchi rancori, ma anche perché voleva anche vendicare l’affronto che Tartaglia aveva fatto a Micheletto Attendoli nel sottrargli quasi tutte le terre sforzesche.